mercoledì 17 ottobre 2012

Da 1000 a 4000 battute spazi inclusi "Ho preso la scala"




Ho preso la scala


Ho preso la scala, quella di ferro, con gli scalini larghi e il corrimano su ambo i lati. Ne ho sollevato da terra la parte anteriore, in modo che le ruote poste dietro, scivolassero sul pavimento fin dove io volevo. Sono salita in cima sull’ultimo gradino, per venire a trovarti. Non lo facevo da così tanto tempo che ho faticato a ricordare dove tu abitassi, in questo condominio di appartamenti tutti uguali.
Tu, sorridi. Sei seduto sulla fila di mattoncini rossi messi di taglio, che compongono la base del caminetto del soggiorno. E’ in ceramica l’immagine che ti ritrae, la copia di una foto scattata con la Polaroid. Non ricordo se fui io a scattarla, né quando mi regalasti la Polaroid. Non eri uno a cui piaceva far regali e se li facevi preferivi momenti non sanciti da date. L’originale di questa foto l’ho tenuta per tanto tempo nel mio portafoglio, fino a quel giorno che mi rubarono la borsa e tutto ciò che conteneva e siccome le Polaroid non avevano rullino, nessun negativo potrà mai restituirmene una copia. Mi devo accontentare di ricordarmela a memoria, perché qui non vengo mai.
Nelle mattine che faticano a partire e il pensiero delle ore in arrivo è così peso da non potersi pensare, è su questo ritratto che vado, dando inizio all’ennesimo monologo, accarezzando ogni volta l’idea di trasformarlo in dialogo con te. Non succede mai e ancora rimango in attesa; che tu trovi un modo per rispondermi, che tu mi dia un segno che mi stai ascoltando.   
Non è arrivato nessuno dopo di me, nessuno mi ha chiesto la scala.
Sono trascorsi tanti anni ma ancora raccontare di te mi è difficile e nelle rare occasioni in cui incontro qualcuno per cui valga la pena togliere il lucchetto al cancello dell’anima, inizio sempre dicendo:  “…la mia vita si snoda tra un prima di lui  e un dopo lui…”. Ma del prima si vanno sfuocando le immagini, si fanno echi lontani le parole. Il dopo è lungo, racchiude la mia giovinezza, si è allungato nella maturità e nella vecchiaia va proiettandosi, se avrò la fortunata di averne una.
A te chiedo soccorso, a te rimetto la fede che non ho. Da te vorrei  ascoltare  un consiglio, accettare un ammonimento. E invece mi arrabbio, fino ai singhiozzi incontrollati, stizziti, e fuori di me t’ impreco, perché non ti perdono di non esserci, nel mio qui, nel mio ora.
Si sono fatti bianchi i miei capelli e le rughe del volto si lasciano contare. Ho ceduto il diritto ai malumori di prendersi cura di me; smettere di contrastarli mi rende più forte. Quando te ne andasti ero alle fondamenta. Un geometra capace e un attento muratore, avrebbero potuto costruire su quelle, una dimora robusta e gradevole. Per anni mi sono sentita incompiuta, appoggiata sul tufo, sull’argilla, e più avrei voluto essere e meno ero. Assomigliarti, nell’intelligenza, nell’intuito, nel saper guardare oltre, nell’impegno che mettevi per raggiungere un obbiettivo. L’ultimo lo hai mancato. Da tempo pianificavi di ritirarti dagli impegni di lavoro più pesanti, lasciandoti giusto quelli che ci avrebbero permesso di vivere dignitosamente, senza sprechi. Pregustavi le giornate nell’orto, a dar di vanga e di zappa, a condurre il  trattore tra ai filari del vigneto, fiero del nettare che ogni anno ti rendeva. In quel luogo eri felice e io non ho saputo preservarlo a nome tuo. Troppo giovane, inesperta, inadeguata nell’impresa.

Il corridoio rimbomba di passi, qualcuno verrà a chiedermi la scala, ci sono così tanti alloggi in questo condominio. I passi si fermano, resterò ancora un minuto poi vado.
A casa, seduta alla tua scrivania, scriverò di questo nostro incontro. Sapessi com’è liberatorio far migrare le emozioni dall’involucro del noi al foglio virtuale del pc. Ne saresti fiero, ma forse dovrei domandartelo: Ne sei fiero?...
Vado, scendo, rimetto la scala dov’era. Nel tralcio di rosa di ottone invecchiato che adorna l’ingresso di casa tua, lascio una pergamena arrotolata. Ci ho scritto delle frasi di canzoni, parole non mie ma che meglio delle mie sanno.

 “…ho messo via un po’ di cose… ma non capisco mai il perché io non riesca a metter via te…”
“..lo vedi, sono stanco, come se fossi in viaggio da sempre, mi manchi tu e arranco, lungo le strade così inutilmente… e certi giorni non certi per niente…”

Ciao babbo, tanto domattina ci risentiamo di nuovo


  

( Menzione d'Onore al Concorso "Un verso per salvare una vita"  indetto dal Club dei Cento di Torino)


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