Ho preso la scala
Ho preso la scala, quella di ferro,
con gli scalini larghi e il corrimano su ambo i lati. Ne ho sollevato da terra
la parte anteriore, in modo che le ruote poste dietro, scivolassero sul
pavimento fin dove io volevo. Sono salita in cima sull’ultimo gradino, per
venire a trovarti. Non lo facevo da così tanto tempo che ho faticato a
ricordare dove tu abitassi, in questo condominio di appartamenti tutti uguali.
Tu, sorridi. Sei seduto sulla fila di
mattoncini rossi messi di taglio, che compongono la base del caminetto del
soggiorno. E’ in ceramica l’immagine che ti ritrae, la copia di una foto
scattata con la Polaroid. Non ricordo se fui io a scattarla, né quando mi
regalasti la Polaroid. Non eri uno a cui piaceva far regali e se li facevi
preferivi momenti non sanciti da date. L’originale di questa foto l’ho tenuta
per tanto tempo nel mio portafoglio, fino a quel giorno che mi rubarono la
borsa e tutto ciò che conteneva e siccome le Polaroid non avevano rullino, nessun
negativo potrà mai restituirmene una copia. Mi devo accontentare di
ricordarmela a memoria, perché qui non vengo mai.
Nelle mattine che faticano a partire e
il pensiero delle ore in arrivo è così peso da non potersi pensare, è su questo
ritratto che vado, dando inizio all’ennesimo monologo, accarezzando ogni volta
l’idea di trasformarlo in dialogo con te. Non succede mai e ancora rimango in
attesa; che tu trovi un modo per rispondermi, che tu mi dia un segno che mi
stai ascoltando.
Non
è arrivato nessuno dopo di me, nessuno mi ha chiesto la scala.
Sono trascorsi tanti anni ma ancora
raccontare di te mi è difficile e nelle rare occasioni in cui incontro qualcuno
per cui valga la pena togliere il lucchetto al cancello dell’anima, inizio
sempre dicendo: “…la mia vita si snoda
tra un prima di lui e un dopo lui…”. Ma
del prima si vanno sfuocando le immagini, si fanno echi lontani le parole. Il
dopo è lungo, racchiude la mia giovinezza, si è allungato nella maturità e
nella vecchiaia va proiettandosi, se avrò la fortunata di averne una.
A te chiedo soccorso, a te rimetto la
fede che non ho. Da te vorrei
ascoltare un consiglio, accettare
un ammonimento. E invece mi arrabbio, fino ai singhiozzi incontrollati,
stizziti, e fuori di me t’ impreco, perché non ti perdono di non esserci, nel
mio qui, nel mio ora.
Si sono fatti bianchi i miei capelli e
le rughe del volto si lasciano contare. Ho ceduto il diritto ai malumori di
prendersi cura di me; smettere di contrastarli mi rende più forte. Quando te ne
andasti ero alle fondamenta. Un geometra capace e un attento muratore,
avrebbero potuto costruire su quelle, una dimora robusta e
gradevole. Per anni mi sono sentita incompiuta, appoggiata sul tufo,
sull’argilla, e più avrei voluto essere e meno ero. Assomigliarti,
nell’intelligenza, nell’intuito, nel saper guardare oltre, nell’impegno che
mettevi per raggiungere un obbiettivo. L’ultimo lo hai mancato. Da tempo
pianificavi di ritirarti dagli impegni di lavoro più pesanti, lasciandoti giusto
quelli che ci avrebbero permesso di vivere dignitosamente, senza sprechi.
Pregustavi le giornate nell’orto, a dar di vanga e di zappa, a condurre il trattore tra ai filari del vigneto, fiero del
nettare che ogni anno ti rendeva. In quel luogo eri felice e io non ho saputo
preservarlo a nome tuo. Troppo giovane, inesperta, inadeguata nell’impresa.
Il corridoio rimbomba di passi,
qualcuno verrà a chiedermi la scala, ci sono così tanti alloggi in questo condominio.
I passi si fermano, resterò ancora un minuto poi vado.
A casa, seduta alla tua scrivania,
scriverò di questo nostro incontro. Sapessi com’è liberatorio far migrare le
emozioni dall’involucro del noi al foglio virtuale del pc. Ne saresti fiero, ma forse
dovrei domandartelo: Ne sei fiero?...
Vado, scendo, rimetto la scala
dov’era. Nel tralcio di rosa di ottone invecchiato che adorna l’ingresso di
casa tua, lascio una pergamena arrotolata. Ci ho scritto delle frasi di
canzoni, parole non mie ma che meglio delle mie sanno.
“…ho messo via un po’ di cose… ma non capisco
mai il perché io non riesca a metter via te…”
“..lo
vedi, sono stanco, come se fossi in viaggio da sempre, mi manchi tu e arranco,
lungo le strade così inutilmente… e certi giorni non certi per niente…”
( Menzione d'Onore al Concorso "Un verso per salvare una vita" indetto dal Club dei Cento di Torino)
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